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Il Campanile di San Pietro

Tratto da:
"IL CAMPANILE DI SAN PIETRO, UN GIGANTE RITROVATO"
Pubblicazione a cura di Arianna Quarneti.
Calchera San Giorgio, Scuola d'Arte Muraria.





Piano di riqualificazione del colore della torre campanaria della chiesa parrocchiale di San Pietro Apostolo, Piacenza.

Prof. Gilberto Quarneti

La cura del particolare: la partecipazione alla creatività collettiva, le opere eseguite "a regola d'arte", l'orgoglio di possedere e tramandare antiche tecniche e conoscenze dei luoghi, così come l'umiltà dell'apprendere e l'ambizione del migliorare, costruiscono un immenso patrimonio di sapienza che la civiltà ha costruito nei secoli, ma che ora stiamo lentamente dissipando.
Alla prima indagine visiva, l'aspetto della torre campanaria in esame, sorprendeva chi avesse avuto attenzione per i dettagli. Sui fronti esterni della torre, scorticati per degrado e annosa incuria, era possibile notare la sopravvivenza di lacerti d'intonaco salvati da protettive modanature aggettanti, cornicioni e sporti d'ogni forma. Per contro, nulla si poteva dire di ciò che fosse il colore originario.
L'intuito e l'esperienza di chi opera nel settore e partecipa quotidianamente di un misto di saperi empirici, nozioni, comparazioni, verifiche tecniche ed applicative, avvertivano che lo scenario non poteva fornire alcun riferimento cromatico e che erano impraticabili i soliti punti di riferimento per riconoscere il monumento attraverso la sua "pelle" e ciò che essa può significare, nel suo contesto architettonico, deputato a testimoniarne la storia.
Appariva evidente la necessità di affrontare la discrasia, sia come crisi di memoria storica, sia come tutela e manutenzione del patrimonio, riqualificando complessivamente l'immagine della torre campanaria della Chiesa parrocchiale di San Pietro Apostolo attraverso un forte richiamo alla sua identità.
Ci si è mossi, sin dall'inizio, ispirati dal primo articolo della Charta del Restauro di Roma, del 1883, che così recita: "I monumenti architettonici, quando sia dimostrata incontrastabilmente la necessità di porvi mano, devono piuttosto venire consolidati che riparati, piuttosto riparati che restaurati, evitando in essi con ogni studio le aggiunte e le rinnovazioni".



Materie e materiali

I materiali da costruzione della tradizione piacentina nella fabbrica della torre di S. Pietro.

Uno dei materiali tipici dell'architettura piacentina è il coppo, che per forma ed ampiezza ha origini nell'unificazione delle sue misure di epoca comunale, come dimostrato dalle misure visibili nel pilone interno al cortile di Palazzo gotico. Di colorazione omogenea, con varianti minime, dipendenti dalle cave di argilla di provenienza della materia prima, il coppo della tradizione comunale misura cm. 51 di lunghezza con basi di cm. 14 e cm. 27.
Con questi coppi si è ricoperto l'intero complesso dell'ex collegio di S.Pietro, tranne il campanile della chiesa, che venne invece protetto con 'ciappe' provenienti dalla chiesa di S.Eufemia. L'attuale copertura è di epoca ottocentesca, realizzata con fogli di rame ridotti talvolta a spessore cosi sottile da essere necessaria la stagnatura per otturare le piccole fenditure che si producono nella laminazione, che sono dapprima impercettibili, ma che poi non tardano ad allargarsi in seguito ai movimenti di dilatazione e di contrazione. Si nota inoltre che le coperture, eseguite con fogli di rame non stagnato, si ossidano sulla loro superficie, ma quest'ossido costituisce una sottile crosta, molto tenace, insolubile all'acqua, che aderisce perfettamente al metallo su cui si forma e che serve a preservarlo da ulteriore ossidazione.

L'altro elemento tipico è il mattone, la cui misura unificata, di epoca comunale, è pari a cm. 29 x 13 x 9. Ciò emerge anche confrontando le sue misure con le opere di alcuni trattatisti. Circa la forma dei mattoni, l'Alberti osserva che debbono essere sottili per seccare meglio, mentre altri consigliano, che a questo scopo vi si possono fare uno o più fori nel mezzo per favorirne l'essiccazione e migliorame la cottura. I mattoni piacentini, formati in tempi più vicini a noi, che si possono definire "moderni", mostrano tutti misure ben più contenute. LAlberti ci fa sapere che i mattoni da lui adoperati nel piacentino misurano cm. 30 x 15 x 5,5. Mediamente le dimensioni dei mattoni, che strutturano la torre di S. Pietro, misurano cm. 29 x 12 x 5 con una variazione volumetrica di qualche millimetro in eccesso, dovuta al diverso lavoro della fiamma nei forni e dal residuo di umidità nell'impasto all'atto di porli in cottura.

Per quanto attiene alla malta d'allettamento ed alla malte dei giunti, si scopre senza sorpresa, che le regole che governano la composizione ed i modi applicativi, sono in aderenza con quanto largamente descritto in tutta la letteratura classica e la manualistica ottocentesca.
Ciò è puntualmente dimostrato dai risultati delle analisi di laboratorio. Disquisendo in generale sui materiali di finitura, occorre dire che quello adottato nelle costruzioni piacenti ne è il tradizionale intonaco di calce e sabbia, lisciato fine e dipinto; oppure sagomato con cornici, lesene e fasce tirate sotto sagoma.

Le facciate, proprio perché tipologicamente ed architettonicamente semplici, venivano riprese con disegni prospettici ed architettonici da maestranze artigiane quali erano i decoratori imbianchini, che in epoche passate rappresentavano vere e roprie scuole di gusto rinascimentale e barocco, avendo come insegnamento il concetto albertiano di dare toni cromatici ai prospetti seguendo la distinzione basilare fra "ossa et complernenta" Ma, in generale, escludendo la torre campanaria di cui si disquisisce, pur essendo presenti in tracce ormai deturpate, gli impercettibili lacerti pittorici, che ancor sopravvivono, possiamo annoverare la città di Piacenza nella tradizione rinascimentale della "urbs pietà".



I tinteggi originari


Ciò che viene considerato il colore locale, identificabile con ciò che è riconosciuto col nome di rosso scuro padano, è in realtà la tinta risultante dello sporco e del degrado accumulatosi in anni di incuria, ed il grado cromatico altro non è che il frutto del sovrapporsi di pitture nel tempo e di errate manutenzioni di una tinta originariamente rosata, ottenuta con calce e polvere di mattone, secondo tecniche da tempo dimenticate.
I viaggiatori del passato riferirono che il colore fondamentale della città di Piacenza, fosse il "rosso foncé", il quale, si ricorda, viene infatti indicato come il tipico e particolare "rosso Piacenza". Altro singolare colore della tradizione piacentina è il "giallo Maria Luìgìa", che consiste in uno scialbo ad imitazione delle tinte ottenute dalla mescolanza di calce e polvere di mattone, virate con l'apporto di terre o ocre gialle.

Dall'indagine visiva, sui colori presenti sulle facciate della torre di S. Pietro, possiamo affermare che essi risalgono senza dubbio all'ottocento e sono appunto ciò che rimane del rosso foncé, tendente al rosa antico, ed il giallo Maria Luigia appena menzionati.
Disquisendo sulle campiture color rosso Piacenza o "rosso foncé', che si voglia dire, c'è da sottolineare che gli scialbi di color rosa antico, altro non sono che il retaggio di ciò che rimane nella memoria collettiva della così detta sagramatura, ovvero una finitura albertiana, che è la più peculiare forma di finitura superficiale, che in passato abbia mirabilmente difeso i paramenti esterni degli edifici.

Della sagramatura

La sagramatura consiste nella levigatura della superficie muraria ottenuta in modo da creare un sottilissimo tonachino (talvolta dello spessore di un solo decimo di millimetro) a copertura dei mattoni sui muri esterni. L'effetto finale è la formazione d'uno strato coprente, color della terracotta, in modo che l' opus testaceum perda ogni suo disegno di apparecchiatura, benché, specialmente quando la parete sagramata è umida o bagnata, traspaia l'ordito sottostante. Sull'applicazione della sagramatura sembra non vi sia una tecnica comune.
La più praticata pare sia quella più dettagliatamente descritta nei manuali ottocenteschi: "Nelle fabbriche che di continuo sono esposte alle intemperie delle stagioni e all'eccessivo caldo o freddo, la miglior pratica che si possa usare per l'intonaco, è la così detta 'sagramatura', ma questa non si può diligentemente eseguire che nei muri costruiti con nuovi mattoni".
Come voleva l'Alberti, dopo aver eretto il muro a perfezione, con mattoni 'ripressati' o 'rotati' fatti cuocere espressamente, sulla superficie si applicava "fior di calce mescolato con polvere di mattoni ben fina" e poi, con forza, la superficie veniva sfregata, mantenendo il muro sempre ben bagnato, con un mattone 'ferriolo' (stracotto), per ben rimestare la maltina e costiparla nelle porosità della cortina muraria.
Il lavoro di sagramatura continuava senza intermissione "in modo da potersi contare tutti i mattoni che compongono il muro"; la superficie veniva quindi passata col taglio rovescio della cazzuola ben affilata, affinché si potesse portare il tutto ad "una certa levigatura e lustro"; infine, allo scopo di rendere la superficie idrorepellente, quando il paramento era ben asciutto, alla sagramatura venivano passate due gagliarde mani di olio cotto.
A tal proposito, c'è da osservare che non tutti gli operatori chiamati allopera di sagramatura, avevano a disposizione cortine murarie elevate con mattoni nuovi preparati in fornace per una così sofisticata e faticosissima pratica. Spesso il muro era già esistente e non del tutto adeguato a ricevere un siffatto trattamento: in quel caso i mastri rabboccavano il muro con una malta di cocciopesto di grana medio-fina e la frattonavano per ben riempire ogni vacuo superficiale delle malte d'allettamento originarie e portare a planarità i mattoni più rugosi.

La superficie, così trattata, veniva lasciata asciugare e poi abbondantemente ribagnata.
Su di essa veniva posta una copertura più sottile d'un intonaco, ma leggermente più spessa di una sagramatura originaria. La malta usata veniva 'preconfezionata' con calce di fossa ben stagionata e polvere di coccio pesto passata al crivello. Quando il tonachino era ben fermo e non ancora asciutto, veniva energicamente lisciato col taglio rovescio della cazzuola sino a ridurlo a perfetta levigatezza. Il risultato era tale da "nascondere il disegno nitido della trama dei mattoni, cosicché la superficie appare continua come una unitaria campitura rosata': Questo modo di coprire i mattoni, con un sottile tonachino liscio, dicesi "alla cappuccina" Vi sono documenti d'archivio che raccontano di tonachini alla cappuccina tinteggiati di rosso, in modo che superfici "soffrenade & apennellate & fate rosse, parano murade de prede nove" (1449).
Benché ancor nell'Ottocento vi fossero manuali che insegnassero sull'applicazione canonica della sagramatura, questa tecnica veniva in realtà quasi regolarmente compiuta "alla cappuccina", e se "la compattezza e l'uniformità del colore dato dalla sagramatura" veniva a mancare, si poteva guazzare il tonachino con "acqua colorata e terre coloranti" per guadagnare in "uguaglianza e freschezza':



I materiali consegnati a pie' di fabbrica.

Per quanto attiene al modo in cui i materiali furono forniti a pie' di fabbrica, dobbiamo ricordare che almeno per la fabbrica della chiesa di S. Pietro, essi furono procurati dai gesuiti, come emerge anche dai capitolati della fabbrica della chiesa medesima. E per quanto di pertinenza alla ricostruzione riguardante la parte superiore del campanile, occorre ricordare che dopo l'interruzione dei lavori avvenuta nel 1620, dovettero trascorrere alcuni decenni prima che essi potessero riprendere. "Non essendo peranche nel 1666 perfezionata la torre di detta chiesa, a cui pure nel 1660 aveva contribuito per il suo finimento considerabile la somma di denaro [ ... ] di Scudi mille Piacentini"
Leggendo i documenti d'archivio qui sopra e di sèguito esibiti, come si può notare, non v'è menzione di un'intonacatura esterna. Tale mancanza, però, non deve apparire come una dimenticanza di chi compilò la fattura presentata in conto; infatti, si noti come la richiesta di pagamento delle "brente" di vino sia sempre presente, scrupolosa e puntuale; e ciò denota uno zelo, che non lascia spazio a dimenticanze. (Una "brenta" piacentina equivale ad un tino di vino da 76 litri circa).
Pertanto, se nel '600 il campanile necessitava dell'intonaco, possiamo avanzare l'ipotesi che esso possa essere stato realizzato nel 1666, visto che nel brano seguente si afferma:



Alla ricerca del colore perduto

Non avendo nella città di Piacenza una memoria d'archivio, che avrebbe potuto indirizzarci alle univoche decisioni delle Commissioni d'Ornato del passato, non abbiamo potuto iniziare il lavoro con il supporto delle preziose prescrizioni suggerite, o imposte, dalle passate Commissioni su monumenti simili a quello da noi indagato. Ad esse commissioni era affidato il compito di soprintendere sulle forme e sui colori dei prospetti, nel pieno rispetto delle norme, da tutti ben conosciute ed accettate, che governavano l'Euritmia, la Simmetria e l'Ornato.
Una tale sistematica operazione avrebbe potuto fornirei molte delle indicazioni utili alla ricomposizione del colore della torre campanaria, oggetto delle nostre indagini.
Essendo stati i lacerti d'intonaco completamente privi di tracce coloriche e senza alcun riferimento documentale, si è dovuto valutare la gamma di colorazione delle malte attingendo dalla tavolozza storica, valutata osservando i caratteri stilistici delle strutture del monumento da intonacare, in un continuo confronto con i suggerimenti cromatici ambientali circostanti, che trovano riscontro nella tradizione locale.
E poiché il monumento è stato affidato alle cure della Soprintendenza ed al rigore del restauro scientifico, abbiamo deciso di attingere le più utili indicazioni, relative alle tecniche ed ai materiali da usare, specialmente facendo tesoro di quanto vien tramandato dalla manualistica dell'epoca.
La colorazione di una facciata comporta una complessa operazione che deve tener conto dell'epoca di costruzione dell'edificio, le linee più o meno ricche degli elementi architettonici e decorativi, nonché delle recenti superfetazioni e quei significativi interventi che ne possono aver mutato l'aspetto stilistico.
Il colore delle campiture maggiori del campanile (complementa) può esser determinato, in linea di massima, dall'epoca a cui l'edificio appartiene, e dalle condizioni cromatiche suggerite dall'ambiente circostante, mentre le tinte delle strutture architettoniche quali zoccolature, bugnati, cornici e cornicioni (ossa), sono determinate perlopiù dalla tradizione compositiva locale che al colore delle pietre del luogo s'ispira.
Generalmente la colorazione proposta, per tono e numero dei colori, è proporzionale alla complessità delle strutture da ricomporre ed alla necessità di esaltare o velare l'insieme dei caratteri morfologici delle facciate che si vorranno recuperare. In ultima analisi il colore dovrà essere un codice di lettura che ci dovrà permettere di proporre il fraseggio cromatico in stretta connessione con la qualità dell'architettura, col suo stile e la sua localizzazione all'interno del tessuto storico circostante.
Nella scelta e formulazione del colore della materia da usarsi non si devono sottovalutare talune difficoltà oggettive che inevitabilmente insorgono al momento di dover dar corpo al progetto. Ci si renderà presto conto che la fedele e rigorosa esecuzione, di tutte le indicazioni fornite dal Piano stesso, evidenzierà oggettivi limiti nel momento in cui ci troveremmo nella necessità di riprodurre dei campioni di colore delle malte su carta, in quanto si potranno verificare variazioni di tono in relazione al tipo di supporto sul quale queste sono esibite. Il formulatore dei materiali richiesti è ben conscio che la progettazione della scala cromatica si completerà inevitabilmente in cantiere, davanti a campionature di più ampia campitura, osservabili da più vicino e da più lontano, a diverse ore del giorno, e magari, con il sole che va e viene. Comunque la definizione del tono cromatico andrà valutato osservando il campione nelle consuete quattro condizioni: all'ombra, al sole, con l'asciutto ed il bagnato.
Si ritiene, inoltre, che vi debba essere un doppio riscontro relativamente alla predisposizione dei "campioni" o dei Modelli delle cromie da produrre. Uno dovrà essere riprodotto il più fedelmente possibile su supporto cartaceo: l'altro, in accordo con la Soprintendenza, dovrebbe essere approntato, "dal vero", su una parete all'aria aperta, protetto, ben visibile ed accessibile all'esame di ogni addetto ai lavori.
Sarà tra i provini in opera che si dovrà di volta in volta scegliere quello ritenuto maggiormente attendibile e prescrivibile, in un continuo confronto fra le maestranze ed i funzionari della Soprintendenza medesima.
In ogni caso, ciò che comunque darà univocità al colore non dovrà certamente scaturire dai personalissimi giudizi di ogni singolo operatore, al quale non si potrà dare alcuna autonomia di valutazione ed interpretazione cromatica che non sia anche mediata dalla sua personalissima sensibilità percettiva.



Il Centro di Ricerca e Formulazione Calchèra San Giorgio (Trento), studia e produce materiali per il restauro di edifici di interesse storico-culturale, secondo le richieste progettuali, utilizzando materie prime pure e naturali, in aderenza con quanto richiesto dalla Tradizione, dalla Regola dell’Arte e le istanze di rispetto dell’ambiente.
Per ogni intervento, il laboratorio della Scuola ha lo specifico compito di studiare, analizzare e riprodurre i materiali storici originari rinvenuti nei medesimi siti nei quali è richiesto il suo intervento.
I materiali del Centro di Ricerca e Formulazione sono espressamete studiati e composti per i cantieri cui sono destinati.
La Scuola d'Arte Muraria è dotata di un dinamico centro di formazione e specializzazione per i giovani artigiani chiamati alla delicata opera di restuaro con l'aiuto di materie tradizionali preparate così com'è sempre stato richiesto in passato.



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L'ipotesi applicativa: malte dal color naturale.

I manuali e la trattatistica dell'Ottocento, da lizia a Valadier, citano l'opera della messa in pristino delle facciate ed il loro colore come un'operazione del tutto normale legata alla tradizione ed alla Scuola, con tempi scanditi dal naturale degrado dei materiali sottoposti, come sempre, all'oltraggio del tempo. La regolare manutenzione era, nel passato, oggetto della comune tradizione e momento di consegna dell'antica Regola dell'Arte alle nuove generazioni. Ora che l'intervento sul costruito si concentra per lo più su interventi a lungo termine, e l'esercizio della manutenzione a tempi brevi viene del tutto abbandonato, ci si trova in presenza di vuoti generazionali ed alla inevitabile perdita della sensibilità all'uso della materia ed al suo naturale colore, deman dando ad altri la scelta per ciò che per tradizione avremmo dovuto aver ereditato da chi ci ha preceduto.
Fortunatamente una riconquistata sensibilità all'uso della materia, come mezzo per colorire gli edifici, oggi ci consente di riscoprire e riproporre composizioni di malte da intonaco dal naturale colore, così come sempre stato sin da prima dell'avvento delle più recenti tecni che di tinteggio, che hanno modificato drasticamente la facies delle nostre città.
Nella formulazione del piano del colore della torre campanaria della chiesa di S. Pietro, un particolare sforzo è stato profuso al fine di diffondere l'antica cultura dell'uso della materia e del suo naturale colore, avendo in progetto il restauro delle cromie locali, prima di rivolgerci nevitabilmente alla nuova pratica dell'uso dei moderni tinteggi. La ricerca di questa pratica dovrebbe essere inoltre estesa alle varie realtà culturali ed architettoniche della città di Piacenza, ponendo particolare attenzione al patrimonio storico che caratterizza l'ambiente in cui esso è inserito.
Laspetto delle malte e dei conglomerati "a vista", degli edifici antichi, è fortemente connotato dalla "grana" e dai toni cromatici assunti dalla presenza di aggregati localmente reperiti e disponibili nel cantiere del passato.
Diversamente, si riscontra oggi una diffusa inadeguatezza negli interventi di conservazione e manutenzione degli intonaci non tinteggiati e delle strutture murarie storiche 'nude', che richiederebbero un impegno più puntuale, teso a migliorare la qualità dell'opera.
Il vasto patrimonio dell'edilizia storica non tinteggiata è oggi largamente confuso con il costruito moderno: e pertanto i progettisti e gli operatori sono spesso inconsapevolmente indotti a scelte non del tutto adeguate; ed è per tale ragione che si assiste spesso ad inconvenienti dovutiall'incompatibilità tra i materiali usati e le preesistenze poste in pristino. Il tema meriterebbe di essere approfondito per tutti quei casi in cui l'esito estetico e la compatibilità funzionale andrebbero affidati esclusivamente all'uso tradizionale delle materie locali e l'antico modo di applicarle.
La ricerca sull'uso delle sabbie locali andrebbe sviluppata in un articolato esame, sul campo e l'indagrne andrebbe estesa sulle malte dal colore naturale, ritrovate sui muri degli edifici storici di tutto il territorio indagato. Per ciascun genere di elementi in malta a vista (paraste, cornicioni, intonaci, ornamenti, stipiti e cornici, ecc.), l'esame sul luogo dovrà individuare puntualmente i nessi architettonici inscindibili tra i caratteri di dettaglio della 'materia' indagata e l'immagine d'insieme dell'edificio stesso.



Il colore delle arenarie del Duomo di Piacenza

L'esame in situ, del colore delledilizia regionale e l'analisi petrografica sulle sabbie locali di alveo, di cava e dalla risulta del taglio di pietre locali, dovranno infine condurre simultaneamente al piano storico cromatico del monumento da tonacare. In molti casi il confronto con i caratteri delle malte dal colore naturale, non tinteggiate degli edifici storici confermerà l'ipotesi formulata in origine, ovvero che in passato, in ciascuna zona siano state prevalentemente utilizzate, per secoli, le stesse sabbie disponibili nelle vicinanze degli edifici.
"Siano ammoniti tutti quelli che fabbricano di servirsi delle materie che sono comode e vicine e che si possono avere con manco costo".
Così lo Scamozzi spiega come il fattore economico abbia condizionato nel passato la scelta dei materiali da costruzione. Ai suoi tempi (1500-1600) l'attività edilizia si avvaleva principalmente di materiali locali, poiché la difficoltà delle comunicazioni rendeva molto costose le importazioni da luoghi lontani.
Vi sono aree ove scarseggiano materiali litoidi, utilizzabili come pietra da taglio, ma abbondanti sono i terreni argillosi utili per fabbricare mattoni; per contro, in altri siti scarseggia l'argilla e quindi l'antica tradizione riproponeva la tecnica del costruire con pietre locali squadrate, rispondendo all'esigenza imposta dall'Arte di impiegare la materia meno costosa e tralasciare la più lontana; e laddove la pietra veniva lavorata, la risulta veniva finemente franta e ridotta in sabbia, da mescolarsi con la calce per confezionare malta per allettare i conci. Si è altresì confermata l'ipotesi, che in ciascun luogo i caratteri della 'grana', delle malte 'a vista, si associ ai caratteri della pietra da costruzione o pavimentazione locali, nonostante le diversità di gusto e di epoca degli edifici che li costituiscono. D'altra parte, il confronto fra le sabbie locali cernite e la raccolta di campioni di malte, prelevate da vecchi edifici, ha messo in luce la grande varietà di sabbie e malte, caratteristiche delle diverse zone d'Italia.
Generalmente, dall'osservazione di queste materie, si dovrebbero individuare le connessioni storiche rilevabili tra le sabbie di un luogo e l'aspetto cromatico locale dei manufatti.
In ogni caso le peculiarità cromatiche locali delle vecchie malte d'allettamento e degli intonaci non tinteggiati, risulteranno rapportabili a tre basilari fattori: la grana visibile dell'aggregato; la tessitura della superficie ed il colore di fondo, conferito prevalentemente dal legante usato e dalle frazioni fini dell'aggregato, indistinguibili ad occhio nudo.



Analisi degli intonaci esistenti e realizzazione delle malte da applicare

La malte proposte, per ottenere che il colore naturale sia raggiunto mediante l'utilizzo di aggregati pigmentati naturalmente, con toni che virano dal beige al bigio, dall'ocra aì gialliccio, dal giallo "brutto" al verdognolo, sono composte con leganti aerei pozzolanicizzati ed aggregati di composizione silicatica di ben ponderata granulometria e colore, al fine di raggiungere che le superfici siano per tono cromatico e finezza, come prescritto dalla Soprintendenza.



Il colore delle sabbie

Il colore della sabbia può fornire alcune indicazioni di massima:

  • Il colore scuro, nero, bruno: può indicare contenuti in ossidi ferrosi o di metalli dello stato di transizione, oppure sabbia di origine basaltica.
  • Il colore chiaro, bianco, avorio, giallino: può indicare la presenza di sabbie silicatiche, quarzi, allumina sporca, carbonati.
  • Il colore vetroso, traslucido, semitrasparente: può essere riferito a sabbia di quarzi te ed allumina di elevata purezza.
  • Infine il giallo e il marrone, possono rivelare la presenza di argille miste.
Dallo studio dei risultati delle indagini effettuate sui lacerti d'intonaco, che ancora persistevano sulla facciata della torre campanaria, oggetto del restauro, si evinceva che le malte analizzate erano composte prevalentemente di calce debolmente idraulica, e l'aggregato fosse composto di sabbie di fiume di origine arenacea, ben classata, inclusa in una frazione passante fra 30 11m e 2000 11m (2 mm).
Laspetto delle malte e degli aggregati, messi originariamente in mistione, è fortemente connotato dalla "grana" e dai toni cromatici assunti dalla presenza degli inerti, della tessitura della superficie e dal colore di fondo, conferito prevalentemente dal legante usato e dalle frazioni siltose dell'aggregato.
Le analisi eseguite sui campioni d'intonaco e malta d'allettamento, hanno permesso di valutare l'aspetto del legante, la composizione litologica, la distribuzione granulometrica dell'aggregato e la frequenza, nonché le dimensioni delle cavità. I risultati analitici rilevano molte similitudini tra i campioni esaminati, a prescindere dal fatto che siano intonaci o malte d'allettamento.
La causa di tale convergenza va probabilmente ricercata nel fatto che durante tutte le fasi edificatorie è stata utilizzata un'unica fonte di approvvigionamento, come peraltro si evince dalle fatture presentate a pagamento nel 1660, viste precedentemente in questo scritto.



La formulazione delle malte ed il loro campionamento

Nel laboratorio Tecnologico, della Scuola d'Arte Muraria - Calchèra San Giorgio (Grigno, Trento), si è proceduto a formulare le malte da inviare a pie' di fabbrica, sotto la torre campanaria oggetto di restauro. Il materiale, espressamente composto per l'intervento di restauro cui era destinato, è stato preceduto da una larga serie di campioni applicati su tavelle, composte di materiale fittile, a similitudine dei supporti su cui le malte sarebbero state poste. Le richieste progettuali sono state puntualmente soddisfatte. Le caratteristiche chimico-fisiche delle malte, che sono state formulate ed applicate, sono state realizzate a "Regola d'Arte': in piena aderenza con la tradizione che le hanno ispirate. Le malte utilizzate non contengono alcuna forma di clinker (C3S), né sali solubili (S03)' né, al momento della completa fase di presa ed indurimento, mostrano contenere alcun residuo di calce libera [Ca(OH)2l. Al nuovo manufatto le suddette caratteristiche garantiscono: longevità; permanenza del colore naturale prescelto; alta traspirabilità; resistenza al contatto e flessibilità; resistenza all'aggressione chimica ed alle avversità metereologiche. Inoltre, la scelta delle materie prime e le formulazioni dei prodotti applicati, sono stati realizzati col preciso intento di scongiurare, in massimo grado, la necessità di dover intervenire in futuro con onerose opere di manutenzione.